COORDINAMENTO REGIONALE CENTRI CULTURALI CATTOLICI
Home
Riflessioni Culturali
I Cattolici e la politica
Galleria delle immagini: i Maestri
Programmi
Iniziative culturali attuate
IL POSTO DEI poveri nel bilancio degli Enti Locali
Video
Riflessioni Culturali

Forum  >  DIALOGO SULLA SOLIDARIETA’



DIALOGO SULLA SOLIDARIETA’
 
 
Intervento del Card. Martini, del Prof. Cacciari, con introduzione di Mons. Luciano Baronio
 
 
Presentazione
 
 
“Dialogo sulla solidarietà” ha visto la luce, come viene ricordato nella Introduzione, in una occasione felice e particolarmente importante per la Caritas Italiana:  la presentazione  al pubblico della “Biblioteca della solidarietà”, composta di 32 volumi (quaderni) con la quale si è voluto celebrare il ventennio di presenza e di attività pastorale della stessa Caritas Italiana. La presentazione ebbe luogo nella sede della Biblioteca Ambrosiana con gli interventi di S.Em. il Card. Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano e del Prof. Massimo Cacciari invitati a dare rispettivamente della solidarietà una lettura dal punto di vista cristiano e laico. L’incontro in diretta televisiva ebbe molta risonanza, come prevedibile, così da suscitare in seguito la richiesta delle Edizioni Lavoro di Roma, particolarmente sensibili alle tematiche sociali, di poterne pubblicare i testi, che gentilmente vennero concessi dagli Autori, chiedendo poi al sottoscritto di scriverne l' introduzione essendo stato curatore della Collana, - insieme a Mons. Bazzari e a Mons. Pasini-  mentre  allora operavo alla Caritas Italiana come responsabile del Centro Studi e alla CEI come Segretario della Commissione Giustizia e pace. La pubblicazione del volumetto, a cura dell'editrice Lavoro, fu ben accolta ed ebbe anche una traduzione in lingua spagnola.
 
La Caritas scelse questa singolare forma di "celebrazione" per far “memoria” del cammino percorso a livello nazionale e diocesano, evitando autoesaltazioni inutili, volendo invece raccogliere il meglio della riflessione teologica e della prassi pastorale sviluppatasi negli anni con impegno ed entusiasmo per farne oggetto di trasmissione affinché non andasse perduto il patrimonio culturale, spirituale e pastorale acquisito con la partecipazione e la collaborazione di molti, sacerdoti, diaconi, religiosi/e, e del  volontariato in tutte le sue espressioni. La natura della Caritas Italiana quale organismo con “prevalente funzione pedagogica”, secondo la felice intuizione e indicazione di Paolo VI° -  fu investita, nello spirito del Concilio,della missione di educare le comunità cristiane a passare dalla logica del ricevere a quella del donare, promuovendo la testimonianza comunitaria della carità. Per questo servivano studi, ricerce,  indicazioni pastorali e proposte operative ora raccolte nei quaderni della Biblioteca della solidarietà, ciascuno dei quali é dedicato ad un  tema di carattere sociale o pastorale.  
 
La memoria vivissima del compianto Card. Martini  rende la sua testimonianza, ripresa ora a distanza di anni, ancora più preziosa visto l'attuale difficile contesto socio-politico che ha  un bisogno estremo di ritrovare l’orientamento necessario, le idee e la forza per la costruzione di una società solidale che contrasti in modo efficace l’individualismo, la frammentazione del tessuto sociale e la dispersione delle energie che la rendono estremamente debole.*

La pubblicazione di questi testi, oggi introvabili, vuole essere un omaggio al suo magistero e nello stesso tempo, un dono ai lettori  di oggi.                 


Introduzione - La solidarietà:
un valore discusso
di Luciano Baronio*
 
 
Parlare oggi di solidarietà è rischioso al meno per due motivi: il primo perché si tratta di una parola inflazionata al punto da essere logora ed il secondo perché, appunto per il fatto che tutti la usano, è stata piegata a significare anche ciò che non è ed è stata strumentalizzata per scopi che non le appartengono. Tuttavia mai come ora è invocata perché avvertita come «esigenza» per la vita personale e collettiva. Senza di essa infatti la vita muore e la convivenza si riduce ad una coabitazione forzata dove la solitudine, l'indifferenza, le tensioni e le prevaricazioni prendono il sopravvento sulla socialità e sulla fraternità. Molti la temono perché troppo esigente per sé e troppo gravosa per la società; altri vorrebbe addirittura cancellarla dal vocabolario perché colpevole di disastri sul piano politico ed economico. Forse, nell' attuale stagione socio-politica e nella temperie culturale che stiamo attraversando, non vi è valore attorno al quale ferva più aspra la battaglia: chi la invoca, chi la detesta e chi la combatte. Inoltre tra coloro che dicono di volerla vi è chi ne dà un'interpretazione così riduttiva da renderla irriconoscibile o codi storta da farne una caricatura.
 
In questa situazione diventa indispensabile cercare di definirla per poter far chiarezza a sé e agli altri; diversamente non ci sarà possibilità alcuna di intesa. A questo scopo vuole rispondere la presente pubblicazione che raccoglie gli interventi davvero illuminanti del cardinal Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano e del professor Massimo Cacciari, sindaco di Venezia, invitati ad un dialogo-confronto appunto sul tema della solidarietà che ha avuto luogo a Milano nella prestigiosa cornice della Biblioteca Ambrosiana con numerosa e attenta partecipazione e che le Edizioni Lavoro ora ripropongono ad un pubblico più vasto insieme ad altri due testi degli stessi autori. La Caritasitaliana promotrice dell’incontro di Milano, motivato anche dalla presentazione della «Biblioteca della solidarie» (ed. Piemme), che prevede una quarantina di titoli - venti dei quali giàpubblicati - sul versante delle povertà e delle risposte, è ben lieta di questa iniziativa e si augura che giovi davvero a diffondere tra la gente valori e messaggi di speranza a vantaggio soprattutto di chi vive di stenti o con grandi difficoltà e sofferenze rese ancora più pungenti dal confronto con i più che, nonostante la crisi che stiamo attraversando, vivono nell'agio e nell' abbondanza.
Il tema vi è trattato da due ottiche diverse, ma non distanti, quella ecclesiale e quella sociopolitica, quella cristiana e quella laica. Ne è uscita una sorta di «complementarietà» che non può non sorprendere positivamente e non incoraggiare una convergenza di impegno davvero auspicabile per il bene di tutti.
Il lettore troverà, pur nella relativa brevità degli interventi, riflessioni e spunti assai stimolanti per il pensiero e per l'azione concreta di cui essere grato agli autori. Certo non basta, come risulta evidente, una solidarietà qualunque che non servirebbe a niente ed a nessuno; è richiesta in vece, soprattutto oggi, una solidarietà forte che reintegri a pieno titolo nella società coloro che ne sono stati «cacciati» e che abbiamo abbandonato ai margini, quasi dimenticandocene completamente, intenti come siamo al nostro star bene. Se n'è dimenticata la politica e l' economia, se n'è dimenticata la società civile nel suo complesso lasciando ad alcuni volenterosi il compito della difesa dei poveri ed il carico sempre più pesante da portare. 

 Ciò che serve, al contrario, è una solidarietà strutturale, politica - come ci ricorda la Costituzione, particolarmente agli artt. 2 e 3 - ed una solidarietà diffusa. Infatti si tratta di promuovere una nuova socialità delle istituzioni ed un ripensamento dello Stato sociale, come «luogo» in cui l'intervento pubblico si orienti decisamente ad obiettivi sociali garantendo l'esercizio dei diritti fondamentali di tutti i cittadini, particolarmente dei più indifesi. E si tratta anche di avere la partecipazione attiva della gente,1 a livello di territorio e di vita

quotidiana, senza della quale non cambierà neanche la politica perché condizionata dalla richiesta che sale da una società che
, nella sua maggioranza, chiede sempre di più, noncurante di chi ha meno in tutti i sensi. Come a dire che la solidarietà, a questo punto, interpella la coscienza di ciascuno. Essa infatti, lungi dal fiorire quasi d'incanto, è il frutto di un impegno corale diuturno, al quale nessuno può moralmente affermare di non essere obbligato, se non altro per il molto che ha ricevuto.
 
L'indifferenza verso la comunità e verso il bene comune è da considerare tra i mali più gravi dell'attuale società perché la mina alla radice. Tutto ciò che riguarda gli altri rischia di essere considerato come qualcosa di odioso o addirittura di insopportabile. Nasce così l'intolleranza per i «diversi» di ieri e di oggi: per i poveri, gli immigrati, gli anziani, le minoranze, le popolazioni del sud, a livello nazionale e planetario, considerate esclusivamente come un peso ed un problema, o peggio ancora come incapaci per «nascita» e per cultura di stare alla pari con gli altri. In questo modo cresce la divaricazione a tutti i livelli, vince il particolare sul generale, la fazione sulla nazione, la litigiosità e la conflittualità sulla composizione e la pace sociale. Da qui ha origine l'estrema debolezza della società di oggi.
Èil caso di dire con il Vangelo che un regno diviso in se stesso «desolabitur», come pure nessuna città o famiglia in sé discorde può reggersi (cfr. Matteo, 12,25). Questo avviene perché l'uomo è peccatore e perché gli sono venuti meno il pensiero2e la spiritualità. Senza di essi tutto perde di significato. Ci fu

un tempo nel qu
ale la città aveva dei punti di riferimento condivisi: la cattedrale e l'università, attorno alle quali ruotava la sua vita. Poi è avvenuta la separazione, alla quale ne sono seguite altre all'interno e all'esterno di ciascuno dei due mondi. Il mondo della cultura ha separato la scienza su Dio (la teologia) dalle scienze sull'uomo, spesso contrapponendole e si è diviso anche il mondo della religione, quella cristiana, dalla quale sono nate, per scisma, più confessioni che hanno rotto la sua unità, non ancora ritrovata. Si può dire che la storia dell’Europa, da un certo punto, è stata una lunga storia di divisioni. Vengono da lontano dunque la frammentazione del sapere e della vita, la complessità, la perdita di simboli unificanti, il difficile rapporto con la natura, la divisione in classi, l'indebolirsi dei legami sociali, l'emarginazione dei poveri che pur vivendo nella città non ne fanno parte; in una parola la dispersione dell’uomo che anche oggi è vissuta in modo acuto per lo smarrimento dei significati e la crisi dei valori che pervadono tutte le manifestazioni della vita: lettere, arti, politica, comunicazione ecc. e per la esplosione degli egoismi individuali e collettivi del razzismo e dei nazionalismi che hanno scatenato e continuano a scatenare tensioni e guerre.
Si è ripetuta l'esperienza della torre di Babele quando - dice il testo sacro - gli uomini emigrarono da Oriente - la patria della luce e della sapienza - e si stabilirono in una comoda pianura (cfr. Genesi 11,2) dove le lingue vennero confuse ed essi non riuscirono più ad intendersi tra di loro.
Ma vi è una causa ancora più profonda del malessere dell'Occidente ed è la perdita di Dio. L'Occidente ha voluto progettare e costruire la città terrena senza di Lui, rinnegando la fede che sta alla radice della sua civiltà e cercare su altre strade la realizzazione di sé e la felicità. Illusoriamente. Così è potuto accadere, nella storia dell'Europa, che il Cristianesimo non solo sia stato negato dai comportamenti ma anche contestato nei suoi contenuti e nelle sue prospettive, sostituite con altri orizzonti, fino all' affermarsi odierno di una cultura senza anima,3nella quale il consumismo ha appiattito tutto, ha tagliato le

radici cultur
ali ed ha elevato la pubblicità a regola del gusto e dei bisogni umani e nella quale l'utile economico, la razionalità tecnologica e la competitività sono diventati predominanti.
La ricostruzione non può che passare attraverso la riconquista di ciò che si è perduto, anzitutto nell'intimo dell'uomo, affinché possa ritrovare se stesso e sentire poi il bisogno degli altri con i quali, uniti dallo stesso destino e dallo stesso cammino, ristabilire un'alleanza di pace e di solidarietà. Quella solidarietà e quel «rapporto con l'altro» che sono costitutivi dell'identità nativa .4

Ma soprattutto va di nuovo riconosciuto a Dio il primato nell' ordine dell' essere, del pensiero
" e nella storia umana dove in modo misterioso è presente ed operante. Allora tutto può essere ricondotto ad unità. In Cristo.6

L'ispirazione cristiana rafforza e dà senso compiuto, al livello più profondo, alla solidarietà, così da fame una manifestazione dell' «amore di Dio riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato» (Romani
, 5,5). Essa riveste la forma di virtù sociale indispensabile, quale «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo responsabili di tutti» (Sollicitudo rei socialis, 38).
La solidarietà non cessa per questo di essere «ecumenica», anzi rivela ancor meglio la sua identità di nozione-ponte che mette in rapporto la concezione puramente umana e quella cristiana dell'amore del prossimo. Èe fa sintesi richiamando e coinvolgendo fede, cultura e politica.
Ciò che conta è che si realizzi, nel convergere dell'umano e del novum cristiano, quell'inculturazione della solidarietà che permei il modo di pensare e di vivere dell'uomo di oggi e si traduca anche in termini politici. E necessario infine dare corpo alla speranza e riaprire il cuore all'utopia perché è meglio morire di utopia che di noia! Non si tratta, beninteso, di sognare
una impos
sibile «Città del sole», ma di non perdere la volontà di impegnarsi seriamente a costruire una società più giusta e più solidale sapendo, come dice il Libro della Sapienza, che «Dio ha fatto guaribili anche le nazioni» (Sapienza, ld,14) e che «in mezzo alla piazza della città - come riafferma l' Apocalisse - si trova un albero della vita le cui foglie servono a guarire le nazioni» (Apocalisse, 22,2) dai loro mali.
 

Dialogo sulla solidarietà

di Carlo Maria Martini e Massimo Cacciari
 
 
 
Carlo Maria Martini 
 

Per prepararmi a questo incontro, qualche tempo fa ho compulsato un compact disk che contiene tutti gli scritti e i discorsi di Giovanni Paolo II. Ho chiesto a questo dischetto le occorrenze della parola «solidarietà» nei testi del Papa dal 1979 al 1994. La risposta del computer è stata: «aspetta»; dopo qualche minuto che il computer continuava a dire «attendi», «attendi», io pensavo di aver sbagliato tasto, non essendo molto pratico; dopo circa dieci o dodici minuti è venuta la risposta: oltre 64 mila occorrenze di questa parola negli scritti e nei discorsi del Papa; è certamente qualcosa di assai rilevante per una parola, solidarietà, entrata da poco nel vocabolario ecclesiastico. La si ritrova, nel Vaticano II, nove volte in tutto e tra queste nove oc
correnze è significativa ad esempio quella del documento Apostolicam Actuositatem, l'apostolato dei laici n. 14, dove sotto il titolo «Ordine nazionale e internazionale» si dice co: «Tra i segni del nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente e inarrestabile senso di solidarietà di tutti i popoli, che è compito dell'apostolato e dei laici promuovere con sollecitudine e trasformare in sincero affetto fraterno». Èda un testo come questo del Vaticano II che emerge la fortuna e l'uso di questa parola nel vocabolario ecclesiastico, in relazione al crescere dell'uso della parola nel vocabolario civile degli ultimi due secoli, a partire dal secolo scorso.
Noi sappiamo bene che quando una parola viene utilizzata molte volte in molteplici contesti si espone al rischio di genericità e di ambiguità. Rischia di diventare un appello vano, puramente verbale. Ciò non toglie che questo vocabolo, malgrado tante discussioni e scetticismo al proposito, sia ancora oggi portatore di una grande capacità allusiva, tanto che è difficile trovare oggi qualcuno che si dichiari essere contro la solidarietà, se non nel senso di essere contro gli abusi che si possono fare di questo termine, per coprire forme di assistenzialismo o addirittura di spreco. Ma il valore ideale della solidarietà rimane in ancora fra i valori universalmente riconosciuti; la parola fa da sigla e riferimento sintetico di un'unità e interdipendenza che l'umanità è chiamata a riconoscere preliminarmente alle diversificazioni in cui essa si articola. Mi pare che in questo senso la parola «solidarietà» partecipi del destino di altre parole e categorie di respiro universale, come i diritti umani; parole pensate espressamente con l'intento di un'elevata condivisibilità, entro un contesto di laicità e di un ampio pluralismo di idee. Il che tuttavia non risolve il problema della loro possibile ambiguità tanto teorica quanto pratica.

E mi pare quindi insita nel termine «solidarietà» una prima sfida a livello culturale-religioso più che in senso etico e sociale. Mi riferisco allo stimolo a pensare le ragioni dell' interdipendenza, che non possono essere affidate a singole parti del corpo sociale, ma esigono un contesto il più possibile approfondito e diffuso. Penso all'interno della storia del nostro paese, a quel momento di grande solidarietà che è stato la nascita della Costituzione. Esso si è attuato tra forze d'ispirazione sociale e politica molto distanti fra loro, e che pure hanno trovato convergenza nel momento costituente; dove la significatività del progetto costituente non risiedeva soltanto nelle garanzie offerte dal dettato costituzionale, ma forse molto più in quel consenso comune, profondo, radicato nella coscienza di un popolo che cercava vie di rinascita e di autentica crescita civile. Per questo non è inutile il richiamo ad una singolare cautela nell'approccio a temi come questi, che dietro l'appello generico alla solidarietà possono nascondere non di rado ottiche estremamente parziali.

I casi più clamorosi si hanno quando la solidarietà è invocata solo a proprio vantaggio, come dovere di altri verso se stessi e il proprio gruppo, o quando la solidarietà è intesa come legame corporativistico di alcuni che si uniscono per tutelare meglio il proprio interesse nei confronti di altri, e così via. 
 
lo mi limiterò qui a richiamare due icone bibliche particolarmente significative su questo tema: quella della parabola del Buon samaritano (Luca, 10) e quella del Giudizio finale (Matteo, 25). È noto infatti che nella Bibbia non ricorre come tale la parola solidarietà; e tuttavia l'idea e le sue istanze possono contare su numerosi riferimenti. L'intera vicenda d'Israele può essere letta alla luce della solidarietà di Dio che fa causa comune con i destini di quello che chiama ad essere il popolo, e suscita in esso la coscienza di un'unità del tutto inedita, radicata nell' alleanza.
Ma vorrei concentrare la mia attenzione sul brano di Luca, 10-25-37, che mi sembra adatto per riflettere su una specifica figura di solidarietà, quella che si attua nelle forme dell' immediatezza dei rapporti brevi, delle relazioni faccia a faccia, dell'incontro con il volto dell'altro. Su questo testo abbiamo riflettuto a lungo in un biennio del cammino dedicato al farsi prossimo. Vorrei sottolineare qualche aspetto simbolico dell'icona biblica; anzitutto la vicenda narrata nella parabola si svolge su una strada, quella che collega Gerusalemme, città santa, a Gerico, simbolo della città secolare, e la strada fra le due città è il luogo della distanza, ma anche del collegamento tra loro. Su questa strada camminano gli uomini, simboli dell'una e dell'altra città; camminano il rapinato, il samaritano, che probabilmente sono due commercianti che viaggiano per i loro affari, camminano il sacerdote e il levita, uomini di religione. La strada è quella realtà della vita comune dove tutti si ritrovano, ma è anche il luogo degli scontri, degli egoismi di gruppo, che giungono al la violenza, come quella dei rapinatori. È il luogo degli egoismi privati, o forse motivati da pretesti culturali, come quello del sacerdote e del levita; la stessa strada è anche il luogo della prossimità vissuta, come quella del samaritano.

Perciò
è nella vita quotidiana, nei rapporti della vita di ogni giorno, al di là delle ideologie e dei ruoli, che si gioca anzitutto la solidarietà. Essa richiede di uscire dai ruoli, di dimenticare le convenienze per accorgersi di essere semplicemente, uomo o donna, un essere umano. La parabola dice di più, notando che il samaritano si ferma presso il ferito, non perché professi principi di solidarietà sociale o teorie sull'uguaglianza di tutti gli uomini (su ciò tace il racconto) ma perché dice la parola evangelica: «Passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione, lo guardò nel volto e ascoltò il suo cuor. Nella conclusione della parabola, alla domanda su chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato tra i briganti, la risposta suona: «Chi ha avuto compassione di lui»; anche se la parola «compassione» è oggi anch'essa sospetta, e non è volentieri messa in rapporto con la solidarietà.
 
L'espressione biblica indica che quest'uomo lasciò parlare il cuore, sentì dentro di sé fremere quel senso di comunione, di esigenza di prendersi cura dell' altro, che è nel fondo di ciascuno di noi, quando non è soffocato da infrastrutture che accumulano diversità, pretesti, difese. E mi pare che ci venga detto qui che la solidarietà fa appello alle forze più profonde, più native, che sono dentro di noi, che superano tutti i confini storici, culturali, razziali, religiosi, per toccare le persone dal loro fondo.
 
Voglio fare un accenno alla seconda icona che ho ricordato, quella del Giudizio finale. E in particolare, in questa icona così nota di Matteo, 25, allo stupore di entrambe le categorie, sia quella della destra che quella della sinistra, di fronte alla parola del re che dice: «Ciò che avete fatto o non avete fatto, a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto o non l'avete fatto a m. Leggo in questo stupore non soltanto una profonda dottrina teologica, su cui non insisto qui, ma anche uno stimolo simbolico a riflettere ulteriormente su un aspetto della solidarietà che supera quello della parabola del samaritano; in essa si vede il volto dell'altro sofferente, qui si supera il volto immediato, per estendersi a ciò che esso significa. E simbolicamente, ci si richiama a tutte quelle situazioni in cui non si vede più il volto dell' altro - è il campo vastissimo delle relazioni sociali di carattere mediato o istituzionale. Infatti dentro ad una relazione in qualche modo istituzionale, ad esempio di tipo politico-amministrativo-economico- finanziario-lavorativo, comunque mediato da grandi istituzioni sociali, non è possibile vedere l'altro con immediatezza, incontrarlo, stabilire con lui un dialogo, lasciarsi commuovere da un volto.
 
Tutto ciò potrebbe farei pensare che solo nell'immediatezza effettiva di un rapporto possa essere davvero vissuta la solidarietà. E un concetto abbastanza comune che la solidarietà sia dei volontari, di quelli che agiscono di buon cuore. La società come tale è altro. Mi pare che proprio in una società come la nostra nasca questa sfida formidabile, quella di mostrare che anche l'agire faticoso e spesso frustrante di chi non riceve un riscontro immediato per la sua opera a favore di altri, abbia un senso, anzi sia d'assoluta necessità.
Penso all'uomo politico onesto che rischia di non vedere in che senso e in che misura il suo servizio possa effettivamente essere opera di solidarietà; quindi all' uomo tentato di lasciare la propria sfera di responsabilità pubblica, per altri settori di operatività più immediati e promettenti, dove le proprie convinzioni gli sembrano poter trovare espressioni in forma quasi più pura e non di compromessi.
 
P
enso anche a chi vive in modo esemplare ogni responsabilità di carattere secondario nella società: dal ricercatore coscienzioso che mette i frutti delle sue conoscenze a servizio del bene di tutti e non di se stesso a chi esercita responsabilmente un lavoro manuale parcellizzato e spersonalizzato, senza poter vedere che anche la qualità del proprio prodotto può essere intesa come servizio di solidarietà effettiva con l'altro e con la società.

O
ccorre quindi a mio avviso estendere la considerazione delle forme di solidarietà possibile anche a queste, forse meno immediate e appariscenti, ma non meno preziose per la crescita della società tutta, che necessita di solidarietà a tutti i suoi livelli mediati e immediati; anzi dobbiamo dire che le forze della solidarietà concernenti il secondo livello, quello mediato, vanno viste come indispensabile completamento del primo. Si tratta di due aspetti complementari di un'unica solidarietà.
 
E’ proprio questa la logica del farsi prossimo anche là dove il mio prossimo è distante, o addirittura non realisticamente incontrabile fisicamente - fino all'ambito dei rapporti internazionali - la logica del farsi attivamente ed efficacemente presenti. Occorre riconoscere il valore profetico realizzato dalle forme di solidarietà immediata verso gli ultimi, forme riconoscibili nelle molteplici attività di volontariato esistenti; penso però che la logica di profonda solidarietà, iscritta entro quest' espressione di grande gratuità e d'indicazione consapevole dell'altro, debba diventare non appannaggio esclusivo di questa attività, ma provocazione effettiva, perché non venga a mancare alla società intera in tutte le sue molteplici espressioni questo apporto non superfluo, ma essenziale e sempre più urgente.
 
Trovo una risposta a queste cose da Giovanni Paolo Il nella sua lettera enciclica Sollicitudo rei socialis, forse uno dei testi più significativi per la società contemporanea. «Quando l' interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta come atteggiamento morale e sociale, come virtù, è la solidarietà. Questa non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine e lontane; al contrario è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti». Si noti come stando a questa definizione, la solidarietà tenda ad assumere il ruolo tradizionalmente assunto dalla giustizia - la virtù orientata per eccellenza al bene comune - assurgendo quindi la solidarietà quasi al ruolo di virtù sociale fondamentale.
 
In questa luce vorrei concludere: solo se anche le trame complesse e articolate delle strutture economico-giuridico-sociali e politiche di un paese saranno innervate dal riconoscimento delle solidarietà possibili, quindi doverosamente praticabili - solo allora la solidarietà, come atteggiamento morale, espressione comune e condivisa dell' attenzione per l'altro in ogni suo apparire, potrà dispiegare al massimo grado tutte le sue potenzialità.
 
 
Massimo Cacciari
 
L'incontro di oggi ci. sfida a riflettere sul valore della solidarietà. lo vorrei iniziare tentando di mostrare come effettivamente si tratti di una sfida molto impegnativa, perché nessun elemento, nessun fattore dell' attuale sviluppo economico-sociale, porta di per sé naturalmente ad una qualsiasi indicazione pratica su come mettere in pratica il valore della solidarietà. Infatti, il nostro modello di sviluppo economico-sociale continua a muoversi nel presupposto, quasi mai dichiarato esplicitamente ma sempre evidenziato nei fatti, che ciò che interessa è il ciclo di produzione-consumo; ciò che sta a monte o a valle del ciclo è variabile dipendente, e intanto può essere affrontato in quanto non disturba il ciclo fondamentale produzione-consumo.

Se questo è vero, è assolutamente impen
sabile dal punto di vista razionale - del calcolo economico così come delle politiche sociali - affrontare in modo convincente il tema della solidarietà.
Non sempre è stato co: per qualche decennio, soprattutto nel corso del secondo dopoguerra, ma anche in precedenza, si era pensato all'opposto, che questo modello economico-sociale centrato sulla considerazione del ciclo produzione-consumo, avrebbe condotto attraverso armonie invisibili e prestabilite ad una progressiva soluzione dei problemi connessi al nostro tema di oggi. S'era pensato che un processo di relativa crescita dell’uguaglianza all'interno del mondo dominato da questo modello economico-sociale sarebbe stato il prodotto di questo stesso modello di sviluppo.

Da questo sogno ci siamo svegliati da poco tempo, da circa quindici, venti anni. Fra quindici, venti anni tutti gli indicatori economici, quelli su cui i nostri amici economisti si basano, rovesceranno l'illusione precedente. Abbiamo dati attendibili per gli Stati Uniti d'America, meno per gli Stati europei; però quei pochi che abbiamo dell'Europa sono perfettamente convergenti con quelli analitici di cui disponiamo relativamente agli Stati Uniti. Nell'ultimo quindicennio il 20 per cento più povero degli Stati Uniti ha visto diminuire in termini reali il proprio reddito del 5 per cento. Il 20 per cento più ricco l'ha visto aumentare del 10 per cento. Il 20 per cento pi ù ricco della popolazione dell' America riceve il 60 per cento del reddito complessivamente prodotto, il 20 per cento più povero il 3,7 per cento.

È un trend che rovescia quello precedente, dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni Settanta. Attualmente gli europei che certamente vivono al di sotto di un livello di reddito accettabile, cioè in povertà, sono 50 milioni - una cifra che va crescendo. In Europa oggi cgrosso modo un quinto della popolazione che vive in modo agiato, mentre i tre quinti si arrampicano, sospesi fra agiatezza e indigenza. Quel quinto non solo sta male, ma negli ultimi quindici anni ha visto peggiorare la propria situazione.

Questo per quanto riguarda la metropoli; per ciò che riguarda il rapporto fra metropoli e paesi terzi, i dati sono più impressionanti. Il rovesciamento delle attese, delle illusioni di politiche di sviluppo economico che avrebbero ridotto le differenze fra Primo e Terzo Mondo, è del tutto evidente, prepotente, violento. Negli anni Sessanta i paesi più ricchi erano mediamente trenta volte più ricchi dei paesi più poveri. Nei primi cinque anni degli anni Novanta si calcola che questa proporzione sia raddoppiata, che i paesi più ricchi siano sessanta volte più ricchi dei paesi più poveri. L'ammontare degli aiuti devoluti mediamente dai più ricchi ai più poveri corrisponde allo 0,3 per cento del prodotto nazionale lordo dei donatori. Si calcola che se solo i paesi più ricchi togliessero le barriere doganali esistenti, le esportazioni dei paesi più poveri aumenterebbero del doppio rispetto all'attuale ammontare degli aiuti. Questi aiuti non sono altro che una miserrima copertura di una politica egoistica dei paesi più ricchi, che negli ultimi trent'anni hanno visto raddoppiare a proprio favore il differenziale rispetto ai paesi più poveri,
contro tutte le previsioni degli economisti, che come tutti sanno sono specialisti nel non prevedere. li trucco degli aiuti è noto e bisogna denunciarlo in modo chiaro.

Abbiamo assistito negli ultimi trent'anni ad un trasferimento massiccio di risorse dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Non è una politica di aiuti, ma una rapina verso i paesi più poveri. Quasi la totalità dei profitti ottenuti nei paesi più poveri è stata trasferita in quelli più ricchi. In realtà gli aiuti sussidiano le imprese dei paesi metropolitani e le classi dirigenti dei paesi più poveri. Questa è stata la politica degli aiuti: una politica di sussidio alle classi dirigenti dei paesi più poveri. Essa ha consentito a volte il formarsi di profitti nei paesi più poveri, che però venivano integralmente trasferiti nei paesi più ricchi. Siamo di fronte al fallimento totale delle politiche di solidarietà, sia a livello internazionale, che all'interno delle stesse metropoli.
 
Una politica cieca, egoistica, perché non fa altro che moltiplicare le tensioni, le ragioni del conflitto, sia all' interno dei paesi metropolitani, che fra metropoli e Terzo Mondo, con conseguenze di crescente instabilità, ingovernabilità del villaggio planetario. Alla fine esse non potranno che mettere in questione lo sviluppo all'interno degli stessi paesi metropolitani, specialmente oggi che la polizia mondiale garantita dai due grandi blocchi contrapposti è venuta meno. In un mondo che è sì villaggio planetario, ma multicentrico - e lo sarà sempre di più - in questo mondo l' assenza di una politica di solidarietà reale, sia all'interno delle metropoli che fra metropoli e Terzo Mondo, non potrà che generare costi suppletivi, conflitti, un contesto assolutamente non funzionale alle stesse ragioni di quel mercato, di quella produzione, di quel consumo che vorrebbero invece proteggersi, o pretenderebbero di proteggersi, attraverso politiche comiopi e cieche.
Non è questione di profezie apocalittiche, ma di puro calcolo, ragionevolezza. Ai paesi metropolitani non convengono politiche egoistiche di questo genere, almeno nel lungo termine. Esse sono destinate a generare condizioni complessive d'instabilità e d’ingovernabilità. Bisogna
parlare ai governanti, ai ceti politici delle metropoli, mostrando, sulla base di un calcolo utilitaristico, che a loro conviene una politica di aiuti reali, che rovesci il sistema dei rapporti fra metropoli e Terzo Mondo dominante negli ultimi vent'anni. Naturalmente il mio discorso sulla solidarietà non si limita a queste considerazioni, ma ritengo che esse siano importanti perché su questi temi dobbiamo essere armati a tutti i livelli, perché dobbiamo dialogare con persone, soggetti, enti diversi, che hanno linguaggi diversi. Ma i nostri saranno discorsi deboli se non riusciremo a rintracciare una ragione etica più essenziale, più originaria, a sostegno del nostro impegno solidaristico. Prima Sua Eminenza parlava di compassione. Essa non può limitarsi alla pura commozione. lo devo assumere dentro di me il volto dell' altro che soffre: questo vuol dire compatire.
Non posso veramente compatire se non mi sforzo di comprendere la passione dell'altro. Quando compatisco comprendo in me quella passione e devo cominciare a capirla, a patire con essa perché l'ho compresa.
 
Si tratta quindi di sviluppare il senso della solidarietà come compassione e come intelligenza dell'altrui sofferenza. Entra in gioco una dimensione di amor intellectualis, non soltanto di puro e immediato amore. Non credo in una solidarietà immediatistica, ma in una solidarietà intelligente. Questa intelligenza non può però restare inerte, perché ciò che comprendo quando sono di fronte all'altro che soffre chiama all'azione. Questa intelligenza deve essere pratica, così come emerge prepotentemente nell'espressione evangelica: «Voi dovete essere i facitori di pace». Una simile logica ci porta ben al di là della pseudo solidarietà cui il mondo occidentale è abituato. Ma non basta. Proviamo a sviluppare ancora il ragionamento. Che cosa è in gioco in questa intelligenza pratica della sofferenza? Il tema del rapporto con l'altro. Tutto questo ragionamento sta in piedi se noi riusciamo a dare una risposta fondata al quesito essenziale: perché l'altro deve riguardarci? Una persona di fede può rispondere con il suo Testo, con la sua Rivelazione. Un filosofo non può. Dobbiamo allora arrestarci qui, come di fronte a un ostacolo insormontabile? Non credo. Anche il filosofo, nella sua miseria, può fondare una ragione per cui l'altro deve interessarci. E penso anche a chi non c'è ancora; ricorderete la battuta di Woody Allen: «Ma perché dovrei curarmi dei posteri? Cosa hanno fatto i posteri per me?». Il postero è in realtà una delle figure per eccellenza dell' altro - ciò che non è a mia disposizione, non è afferrabile. Il postero mi sfugge, ma mi deve riguardare: perché? Perché dobbiamo comprendere che l'altro è in noi - a prescindere da come lo trattiamo, dal fatto che l'amiamo o l'odiamo o ci è indifferente.

Questa è la fondazione trascendentale di
ogni idea di solidarietà: il mio socius essenziale, cioè me stesso, è un altro. lo non sono un io semplice, un io indiviso, un io individuo. In me c'e una società di individui che hanno bisogno l'uno dell'altro, che si dividono l'uno con l'altro, fanno la guerra e la pace l'uno con l'altro. lo non posso ignorare l'altro perché io «sono» l'altro, perché io mi sono straniero. lo posso riconoscere lo straniero in quanto tale perché io lo conosco in me; non potrei predicarlo fuori di me, riconoscerlo fuori di me. Questo rapporto di alterità con un altro fuori di me è possibile trascendentalmente, perché l'altro è il mio socio essenziale, colui dal quale non posso distaccarmi - me stesso.

Questa è la rivoluzione antropologica necessaria per considerare la solidarietà al di fuori del pragmatismo - tutt'altro che disprezzabile, se svolto intelligentemente. Ammettere che la condizione del nostro essere noi stessi è avere l'altro in noi. Non un altro di comodo, a nostra disposizione, non una convivenza pacifica, garantita, ma proprio quell' altro straniero, colui col quale possiamo essere in pace o in conflitto perché è davvero autonomo e possiede sue autonome ragioni. Il rapporto con lui è arrischiato non è mai equivalente. Tale rapporto ha sempre un aspetto di gratuità, di dono. Mai possiamo essere garantiti che cche gli diamo possa ritornare.

Ecco l'idea dell'individualità totale: io sono un individuo, ma totale. Nella mia individualità cquesta comunità di assolutamente distinti che si riguardano essenzialmente. E se mi riconosco come individualità totale, non posso non riconoscere come essenziale a me il volto dell'altro. Il rapporto con l'altro è ontologicamente fondato, sottratto a ogni casualità, necessario.

Spero sia chiaro che ragionare in questa prospettiva comporti una sorta di conversione rispetto ai valori dominanti nell'attuale sistema economico-sociale, rispetto alla solidarietà come commozione sentimentale. Questo tipo di solidarietà, verso il quale ho rispetto, è però l'opposto dell'idea d'individualità totale che ho appena tratteggiato. Èun atteggiamento privatistico - in greco il privatismo si dice idiozia.
Uno dei drammi del nostro tempo non è la riduzione dell' individuo a privato, è l'inflazione della personalità dell' idiota che ha inflazionato la dimensione del proprio gretto interesse privato. Ecco perché occorre inaugurare una sorta di scuola di resistenza all'inflazione della personalità dell' idiota, aperta a tutti, laici e cattolici. Se non riusciremo a sottrarre la solidarietà
alla sua dimensione utilitaristica, a darle una fondazione forte, la sorte di tutti noi, idioti compresi, sarà segnata. L'idiota è tale perché alla fine non conosce realmente il proprio interesse. L'idiota oggi, nella sua totale mancanza di riconoscimento dell'altro e dei valori della solidarietà, minaccia di distruggere se stesso e di portare alla catastrofe tutto il suo mondo. Che naturalmente è anche il nostro.
 
 
Note

1La solidarietà, scrive Giovanni Paolo II, «sollecita la partecipazione attiva e responsabile

di tutti alla vita politica
, dai singoli cittadini ai gruppi vari, dai sindacati ai partiti: insieme, tutti e ciascuno, siamo destinatari e protagonisti della politica» (Christifideles laici, 42).
2 Cfr. Alain Finkielkraut, La sconfitta del pensiero, Ed. Lucarini, Roma 1989.
3 «La grande crisi del moderno nasce dal momento in cui cade la dimensione spirituale». Così si esprime G. Baget Bozzo in Dio e l'Occidente, lo sguardo del divino, Ed. Leonardo, Milano 1995.
4 Cfr. E. Levinas, L'identità dell' Occidente, in Aa.Vv., Religiosità ed Occidente, Ed. Marietti, Roma 1992.
5 «Dio non può non abitare il pensiero dell'Occidente, perché l'Occidente nasce quando Dio diventa l'oggetto del pensiero». Così si esprime G. Baget Bozzo, op. cito
6 La Gaudium et spes così si esprime, in merito: «Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne [ ..] per divenire il centro di convergenza di tutte le cose. Il Signore è il fine della storia, il punto focale dei destini dei popoli e delle loro culture, il perno della vicenda umana» (45).
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 













roogiefilSag
2017/09/20 12:54:01
hi to all! give me please funny cats videogs on yourtube

1 voci totali
Aggiungere una nuova risposta
Nome*
Risposta*
Per favore, digitate il codice di conferma visualizzato sull'immagine*
Ricaricare immagine


Home
Riflessioni Culturali
I Cattolici e la politica
Galleria delle immagini: i Maestri
Programmi
Iniziative culturali attuate
IL POSTO DEI poveri nel bilancio degli Enti Locali
Video