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Interiorità e espressività della preghiera cristiana
 
   Luciano Baronio
 
 
Inizia così la Lettera ai Vescovi della chiesa cattolica della Congregazione per la dottrina della fede su “Alcuni aspetti della meditazione cristiana”, alla quale faremo più volte riferimento nel corso della nostra riflessione. “In molti cristiani del nostro tempo è vivo il desiderio di imparare a pregare in modo autentico e approfondito nonostante le non poche difficoltà che la cultura moderna pone all’esigenza di silenzio, di raccoglimento e di meditazione” (Lettera ai Vescovi della chiesa cattolica della Congregazione per la dottrina della fede su Alcuni aspetti della meditazione cristiana, Roma Libreria Editrice Vaticana, 15 ottobre 1989).
Questa constatazione ci spinge a continuare la riflessione sulla preghiera che sta al cuore della spiritualità cristiana e non solo di essa, in quanto l’uomo è religioso per natura, ed è di conseguenza un “orante” per natura, qualunque sia la modalità che la preghiera può assumere in lui, anche in rispondenza alle diverse aree culturali e religiose di appartenenza. Di qui il grande interesse che il tema della preghiera, nelle sue svariate espressioni, soprattutto a livello esperienziale, è andato progressivamente suscitando - anche in chi dice di non credere - sia nell’ambito della letteratura, delle scienze umane (antropologia, etnologia, sociologia, psicologia, ecc.) che nel grandi mezzi di comunicazione sociale dove, talvolta, ha trovato spazi e ascolto impensabili, come risposta a un non mai spento desiderio di ricerca spirituale dell’animo umano, oggi particolarmente inquieto ed insoddisfatto.
 
 
La natura della preghiera cristiana
 
 
Va detto subito che “la preghiera cristiana è determinata dalla struttura della fede, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura” (Ibid 3). Per cui le è “essenziale l’incontro di due libertà, quella infinita di Dio come quella finita dell’uomo” (Ibid 3). Per questo essa si configura strutturalmente come un rapporto e un dialogo personale tra l’uomo e Dio, nel senso autentico e pieno della parola. Rapporto e dialogo che hanno come fine l’unione con Dio, nella fede e nella carità.
Essa esprime quindi la nostra comunione con la vita intima di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, che ha il suo fondamento nel battesimo e la sua pienezza nell’eucaristia e che implica, esistenzialmente, un esodo da se stessi e un atteggiamento di conversione verso Dio, in senso reale.
Tutto questo fa giustamente affermare che la preghiera costituisce “la categoria fondamentale per percepire e descrivere il mistero di Cristo e dei cristiani " ( J Ratzingher, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1978, pag 63).
Da quì la sua centralità, rappresentatività e significatività in relazione al fatto globale della vita cristiana.
Così concepita essa è un’attività che coinvolge tutta la persona del credente, anima e corpo, interiorità ed esteriorità. Infatti “nella preghiera è tutto l’uomo che è chiamato ad entrare in relazione con Dio(Alcuni aspetti di meditazione cristiana).
Il cristiano perciò prega nella sua soggettività umana  impegnando nella preghiera intelligenza, volontà, affettività, corporeità, poiché egli prega con lo spirito, con il cuore e con il corpo (Cfr. Preghiera cristiana e non cristiana, in “La Civiltà Cattolica”, 3 marzo 1990). E’ su queste due dimensioni, spirituale e corporale, interiore ed esterna, della preghiera che intendiamo fermare la nostra riflessione.
E’ un discorso che tocca sia la sostanza che il modo: importanti l’uno e l’altro, come già ricordava s. Agostino rivolto a Proba, che appunto gli aveva chiesto che le insegnasse come pregare: “Tu in realtà temi che più del non pregare possa nuocerti il non farlo come si dovrebbe” (Agostino, Lettera 130 a Proba 4, in Opere,le lettere/2, Città Nuova, Roma 1971, p. 77).
 
 
 
I - Interiorità della preghiera
 
 
Il discorso sulla dimensione interiore della preghiera non mette anzitutto l’accento sul “luogo” fisico, per così dire, dove essa nasce e fiorisce - cioè il cuore dell’uomo - quanto piuttosto su Colui che, invisibilmente presente, vi abita perché “è stato effuso nei nostri cuori” (Rm 5,5), cioè lo Spirito Santo che ne è il soggetto principale e la sorgente, da cui scaturisce, in modo inesauribile, la preghiera. S. Paolo lo ricorda chiaramente: “Nessuno può dire Gesù è il Signore se non nello Spirito Santo” (1 Cor. 12, 3). In questo senso la preghiera di ogni cristiano è una preghiera nello Spirito.
 
 
La preghiera nello Spirito
 
 
Perciò la preghiera e tanto più la vita di preghiera sono dono dello Spirito Santo. II pregare dei cristiani non è semplicemente un proprio modo di rivolgersi a Dio, che li distingue dagli altri che non sono cristiani e che quindi pregano diversamente, ma esso, già per il fatto stesso che si compie, è segno e frutto dell’azione dello Spirito Santo nel cuore dei credenti che li apre, in Cristo, al mistero stesso di Dio.
E’ in questo contesto teologico che l’invocazione più alta, quella di “Abbà, Padre” rivolta a Dio - che non elimina la distanza creaturale - non esprime solamente una forma di preghiera ma é “rivelazione” del dono inaudito, per mezzo dello Spirito, della partecipazione dell’uomo alla natura divina. Dice S. Pietro, nella sua seconda lettera: “La potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e la sua potenza. Con queste ci ha dato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina...” (2 Pt 1, 1-4).
E’ questa realtà che fonda e norma il rapporto filiale con Dio che, di conseguenza, decide e determina la natura della preghiera cristiana. La preghiera è perciò anzitutto contemplazione di Dio e di ciò che egli ha operato e opera per noi.
Ma per “vedere” Dio in se stesso e attraverso le sue opere non basta mettere in esercizio le facoltà naturali dell’uomo, è richiesta l’azione dello Spirito Santo. Solo se c’è in noi il suo Spirito siamo in grado di vedere lui, le cose e gli avvenimenti, quali opere di Dio compiute per mezzo di Gesù Cristo. Così la preghiera nello Spirito si fa non solo anamnesi, quale memoria gioiosa e riconoscente delle opere da lui compiute, ma anche lettura carismatica della storia nella quale si è coinvolti e della propria vita, come, in modo esemplare, possiamo vedere nei Cantici del Benedictus di Zaccaria e del Magnificat di Maria.
Invece senza lo Spirito non solo non vi è preghiera, ma nella vita dell’uomo avviene il movimento contrario: ci si distacca da Dio e ci si volge alle creature che non tardano a trasformarsi in idoli. Perciò S. Paolo afferma, nella lettera agli Efesini: “Fratelli, io piego le ginocchia davanti al Padre.. perché ci conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito rell’uomo interiore” (Ei 3, 14-16).
 
 
Presenza di Dio o debolezza umana
 
 
L’uomo permane debole e Dio lo sa, perciò: “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza perché non sappiamo nemmeno che cosa dobbiamo chiedere… è lo Spirito che supplica per noi con gemiti inesprimibili. Colui però che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, poiché esso intercede per i santi secondo il volere di Dio” (Rm 8, 25-27). C’è dunque in noi, per così dire, anche per quanto riguarda la preghiera, “una dotta ignoranza”, cioè una nostra incapacità radicale e una ignoranza profonda, illuminata però e istruita dallo Spirito di Dio che non solo ci viene in aiuto, ma intercede per noi. Non solo lo Spirito prega in noi, ma crea in chi gli si affida liberamente Io condizioni perché la preghiera si sviluppi nell’animo sul modello del Cristo orante che egli intende riprodurre al vivo nei suoi discepoli. Quanto detto della preghiera del singolo vale anche per la preghiera della chiesa: anch’essa è resa orante dall’azione dello Spirito “che unificando tutta la chiesa, per mezzo del Figlio, la conduce al Padre” (Institutio generalis de liturgia horarum, 8).
 
 
Interiorità e silenzio
 
La preghiera non fiorisce in piazza, nel rumore, ma ha bisogno di un clima adatto. Il silenzio   è condiziono indispensabile per l’interiorità della preghiera. L’evangelista Luca scrive: “Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in preghiera” (Lc 6, 12). Egli ama i luoghi solitari e sceglie il silenzio della notte. Egli ha detto ai suoi discepoli: “Quando preghi entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6, 6). S. Cipriano ci ricorda: “Per coloro che pregano, le parole e la preghiera siano fatte in modo da racchiudere in silenzio e timore”, perché “Dio non è uno che ascolta la voce, ma il cuore” (Cipriano, De dominica oratione, CSEL, II 1, 265-294). E S. Giovanni della Croce: “Ciò che importa è di imporre il silenzio ai desideri e alla lingua dinanzi a questo grande Dio, poiché
il solo linguaggio che egli ascolta è l’amore silenzioso” (S. Giovanni della Croce, Vida y obra de San Juan de la Cruz, Editorial Catolica, Madrid 1969, p.1144).
Su questo punto s. Agostino chiede un ulteriore passo avanti: “Se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore, ma oltrepassa te stesso perché tu non sei Dio: egli è più profondo e più grande di te” (Agostino, Confessioni 3, 6, 11).
Dunque concentrarsi, ma trascendersi nello stesso tempo, perché l’”io” non è “Dio”, ma è solo creatura e Dio è interior intimo meo et superior summo meo” (Ibid). Il semplice “restare in se stessi” può tradirci e condurci a forme di narcisismo spirituale.
Il silenzio, dunque, è una cosa grande che Dio ci ha dato e ci ha insegnato, come ci ha dato la parola per cui - diceva Lacordaire - il silenzio é, dopo la parola, la seconda potenza del mondo.
Solo dove spira il silenzio, fa preghiera parla (Paolo VI, Discorso ai monaci benedettini, 8 settembre 1971), perché è vero, soprattutto per la preghiera, che “il silenzio costituisce la vera conversazione tra persone che si vogliono bene” (Albert Camus). Lo aveva ben compreso quel contadino, assiduo alla preghiera, che interpellato dal santo curato d’Ars su cosa facesse tanto tempo davanti al tabernacolo, rispose: Lui guarda me e io guardo Lui!. Tutto ciò contrasta duramente con il modello di vita, oggi prevalente, e rivela l’aspetto più acuto della crisi spirituale del nostro tempo che produce l’appiattimento dei sentimenti, l’insignificanza della parola e addirittura l’assenza della domanda, nonostante i bisogni, non solo materiali, che l’uomo di oggi ha (é proprio vero che non sappiamo nemmeno che cosa chiedere!). L’uomo si fa muto: il cuore non riesce a esprimersi perché dissipato, inquieto, diviso e disorientato. Infatti, un po’ alla volta “abbiamo perso la misura delle cose. Siamo diventati esistenze senza contemplazione. Non abbiamo più nostalgie né rimorsi. Non abbiamo più da ritornare verso nessun paese... E non sappiamo più cosa scoprire. Tutto è di uguale importanza e di nessuna importanza” (Davide M. Turoldo). Purtroppo anche a messa, talvolta, non c’è silenzio e clima di ascolto. Sembrano prevalere invece un clima di distrazione, di “chiasso” o di fretta e il moltiplicarsi inutile di parole umane che non solo non aiutano, ma addirittura disturbano e non permettono l`incontro profondo, personale e comunitario con Dio, per cui ne vengono messe dalle quali non si esce corroborati, ma annoiati. Costante, perciò, deve essere l’invito al raccoglimento, a rientrare in se stessi, per incontrare Dio – e per ascoltare la sua voce - a coloro che intendono fare l’esperienza della preghiera, sia personale che comunitaria.
 
 
Interiorità e confessione dei peccati
 
 
Rientrare in se stessi, dunque, vuol dire incontrarsi e conoscersi, alla luce di Dio. Da qui nasce il senso della propria indegnità che si manifesta nell’uomo man mano si avvicina a Dio, che è Santo, anzi “tre volte Santo” (ls 6, 3).
“La ricerca di Dio, mediante la preghiera, deve essere preceduta e accompagnata dall’ascesi o della purificazione dei propri peccati ed errori, perché secondo la parola di Gesù, soltanto i puri di cuore vedranno Dio (Mt 5, 8)”
Così la liturgia, nel rito romano, ci introduce alla celebrazione: “Fratelli, prima di celebrare i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati”. Il pubblicano fu giustificato perché pregava nel modo giusto: non aveva riposto speranza di salvezza nella sua innocenza, dal momento che nessuno è innocente. Pregava dopo aver confessato umilmente i suoi peccati. E così colui che perdona agli umili ascoltò la sua preghiera” (Cipriano, De dominica oratione, cit). E’ l’umiltà che trasforma il povero, orante, in uomo di Dio. II Vangelo perciò mira a una purificazione dall’errore, cioè dalla mancanza di verità (e di sincerità)anzitutto riguardo a se stessi e alla propria situazione, e a una purificazione “su un piano più profondo da tutti gli istinti egoistici che impediscono all’uomo di riconoscere e di accettare la volontà di Dio” e i fratelli (accoglienza, perdono delle offese). (Alcuni aspetti, cit.18).
Il moto di cui Dio ha bisogno, in noi, dunque, e quello della rinuncia al proprio egoismo: occorre distaccarci da noi stessi, dalle nostre innumerevoli volontà, anche “ignote”, e dai nostri capricci. Ci soni in noi, infatti, delle zone profonde sottratte all’influsso della preghiera che la rendono impotente a cambiarci. In questo senso si può affermare che ciò che non é pregato non é salvato. Per questo la chiesa ci fa dire: “non prevalga in noi, Signore, il nostro sentimento, ma l’azione del tuo santo Spirito” (Messale romano, Orazione dopo la comunione della XXIV domenica per annum – C).
Egli, mentre ci eleva, intende svuotarci di tutto ciò che ci trattiene e attirarci completamente, senza violentare la nostra libertà, nell’orbita del suo amore ((Alcuni aspetti, cit.20).
 
 
La preghiera é amore
 
 
Allora la preghiera quale incontro con Dio nell’interiorità di noi stessi si svela per quello che è veramente: un rapporto e una esperienza di amore, ricevuto e ricambiato.
La preghiera cristiana non consiste nel molto parlare a Dio, ma nel molto amarlo. Anche la preghiera prolungata di cui ci parla il Vangelo (Lc 6, 12; 22, 43) non consiste nel moltiplicare le parole o le formule, secondo una concezione magica, ma nel mantenere lo slancio del cuore (diuturnus affectus).
Dunque la vera preghiera è quella interiore, che si rivolge a Dio “con lungo e pio slancio del cuore” (“diuturna et pia cordis excitatione”)(Agostino, Lettera 130, 10, 20). “Anna... parlava con preghiera nascosta ma con fede manifesta. Parlava non con la voce, ma con il cuore, poiché sapeva che così Dio ascolta” (Cipriano, De dominica oratione, cit.). Se viene dal cuore la preghiera è autentica, é trasformante, è efficace. A questo dobbiamo puntare per noi stessi e per quanti a noi si rivolgono per imparare a pregare. Diversamente si riduce a “flatus vocis” – “questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me (Is 29, 13) - e a pura esteriorità, come avviene, per esempio, in talune “manifestazioni popolari” di devozione ai santi. E’ però impossibile giungere a questa esperienza di preghiera se si prescinde dal dono dello Spirito, che solo può accendere e alimentare questa oratio ignita: letteralmente, preghiera infuocata, fatta cioè di amore.
La preghiera nello Spirito produce l’amore, l’amore suscita un desiderio di Dio, crescente, che diventa a sua volta misura della durata della nostra preghiera. Il desiderio di Dio, ma pure “il semplice desiderio di pregare è da sé solo una preghiera” (Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna).
Si ha così la identificazione della preghiera con il desiderio di Dio, che sale dal profondo del cuore, a cui difficilmente, penso, un uomo, nell’arco della sua vita, può sottrarsi totalmente. “Dio nella preghiera vuole che si eserciti il nostro desiderio, onde diventiamo capaci di prendere ciò che egli si prepara a darci. Questo bene è assai grande, ma noi siamo piccoli e angusti per accoglierlo. Dio non si dà a chi non prega, per non dare a chi non sa ricevere” (Agostino, Lettera 130, 9, 18).
Dio ama essere desiderato e cercato per questo, cioè per donarsi più abbondantemente. E’ ancora S. Agostino che dice: “Ut inventus quaeratur, immensus est” (Dio è immenso e infinito perché si continui a cercarlo anche dopo averlo trovato). “Si cerca perché sia più dolce il trovarlo e si trova perché sia più intenso il cercarlo. [Allora] cerchiamo come chi sta per trovare e troviamo come chi sta per cercare” (Agostino, Agostino e la conversione cristiana Ed. Augustines, Palermo, p. 12).
 
La preghiera è gioia
 
L’incontro di amore con Dio, nella preghiera, produce gioia. E non può essere che così, quando é autentica. Come la preghiera interessa tutto l’uomo nel suo essere e nelle sue facoltà, così la grazia che ne deriva lo invade intimamente, ne tocca i sentimenti. La gioia, come la pace, e frutto delle Spirito (cfr. Gal. 5, 22). Nella preghiera, come abbiamo visto, ci sono la confessione dei peccati, il senso di indegnità profonda davanti alla santità di Dio, il dolore e la compunzione per le offese arrecategli, la supplica... ma su tutto deve prevalere la lode, il rendimento di grazie, La gioia, perché Dio é amore, l’amore vince ogni cosa e tutto riassume in sé. Per questo la maggior parte delle preghiere dell‘età apostolica, giunte fino a noi, termina con la dossologia e con l’Amen.
Tanto più lo deve essere, anche visivamente, la preghiera comunitaria, specie quella “eucaristica”, dove il trovarsi insieme come figli di Dio e fratelli, costituiti in comunità di salvezza, ci sostiene nella lode comune e nella gioia del canto. Va riconosciuto che la riscoperta di questa dimensione della preghiera, della sua bellezza e della sua gratuità, ha camminato molto nelle nostre comunità anche per merito di alcuni movimenti ecclesiali che la vivono come specifico carisma.
Bene riassume la nostra riflessione la preghiera liturgica del MessaJe romano che così si esprime: “O Dio che ti riveli ai piccoli e doni ai miti l’eredita del tuo regno, rendici poveri, liberi ed esultanti, a imitazione del Cristo tuo Figlio. .. per annunziare agli uomini la gioia che viene da te” (Messale Romano, Colletta della XIV domenica per annum – A).
 
 
II - Espressività della preghiera cristiana
 
Interiorità e espressività
 
L’espressività della preghiera cristiana è strettamente legata alla sua interiorità e al contesto culturale dentro il quale è vissuta. Diversamente rischia il vuoto e la ripetizione meccanica di parole e di gesti che, alla fine, appaiono senza senso, assumono un aspetto magico o si trasformano in spettacolo.
I due elementi sopra accennati, se rispettati, dovrebbero assicurare alla preghiera quella spontaneità e verità che essa esige per essere autentica. Il tema della espressività della preghiera e stato reso attuale della riforma liturgica, che ha dato spazio a una maggiore libertà di espressione, rompendo e superando il fissismo rubricistico preconciliare. Essa ha riconosciuto e stimolato una benintesa spontaneità e creatività, ispirate al criterio dell’adattamento culturale e a una maggiore contestualizzazione “territoriale” delle celebrazioni. Anche l’influsso dovuto a una maggiore conoscenza e al contatto diretto con altre modalità di preghiera, anche non cristiane, ha avuto Ia sua parte.
A sentirlo sono soprattutto i giovani, anche se talvolta possono correre il pericolo di badare molto alle modalità esterne di espressione della preghiera e meno alla sua dimensione interiore che è più importante e ben più impegnativa in quanto esige, una profonda conversione— letteralmente, una “conversio ad Deum” — del cuore e della vita.
 
 
La preghiera é un atto di tutto l’uomo
 
 
Nella preghiera è tutto l’uomo a entrare in relazione con Dio, anime e corpo, il quale pure è chiamato ad assumere non solo la posizione più adatta al raccoglimento ma a esprimere l’atteggiamento orante della persona. L’esperienza dimostra, infatti, che l’espressione del corpo non è priva di influenza sull’atteggiamento dello spirito, anzi può rappresentare in modo simbolico la preghiera stessa (Cfr. Alcuni aspetti, cit., 26).
Il giornalista francese H. Fesquet così scriveva di papa Giovanni: “L’abbiamo visto la settimana scorsa, in S. Pietro, sorridente e disteso, con quell’aspetto di equilibrio, di serenità e di bontà che è caratteristico degli uomini che pregano molto” (H. Fesquet, Diario del Concilio, Mursia 1966, Milano, pag 5).
 
Gesù non ha raccomandato particolari posizioni del corpo, tuttavia ha lodato il pubblicano che, “fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio abbi pietà di me peccatore!” (Lc 18, 13).
Egli stesso nel giardino degli ulivi si è inginocchiato {Le 22, 41), si è prostrato con la faccia a terra [Mt 26, 38), mentre nel cenacolo “ha alzato gli occhi al cielo” (Gv 17, 1) durante la preghiera sacerdotale.
Storicamente la preghiera cristiana ha assume atteggiamenti del corpo, già presenti nella cultura giudaica, adattandoli alla mentalità e alla sensibilità del mondo greco-romano. Così ci si prostra per adorare; ci si inginocchia per implorare; si sta in piedi per rispondere; si alzano le mani per lodare, per chiedere e per offrire; ci si siede e si tace per ascoltare; si canta, si battono le mani e si danza per manifestare gioia.; si dà il bacio di pace per esprimere fraternità; “si cammina” (processione, pellegrinaggio) per esprimere la nostra condizione di viandanti verso la meta della patria celeste.
L’espressività della preghiera non riguarda solo il singolo ma anche l’assemblea, anzi la comunità nel suo insieme. La dimensione comunitaria ne rafforza l’evidenza e il significato, rendendola, nel contempo, diffusiva e contagiosa, come del resto si sperimenta anche visivamente in alcune riunioni di preghiera, soprattutto da parte dei gruppi ecclesiali, meglio preparati e più omogenei. Allora i gesti non solo hanno la capacità di esprimere in modo efficace i sentimenti dell’animo ma servono anche a intensificarli e a farli vivere in pienezza. Dunque, non è soltanto l’anima che “forgia” il corpo; è altrettanto vero che essa si “realizza”, si esprime e si rivela attraverso e mediante il corpo e con il suo aiuto.
Come non è soltanto il pensiero che crea la lingua parlata: esso si libera mediante la lingua. Che lo “manifesta”. La parola, quindi, non è semplice rivestimento del pensiero, ha una dignità più alta, quella di incarnarlo a di esprimerlo. Essa talvolta riesce a forzare persino le porte del mistero e dell’inesprimibile. Per ridare alla preghiera la pienezza della sue espressività è necessario però aiutare le nostre comunità a compiere una vera rigenerazione gestuale e simbolica, che risponde a una esigenza oggi fortemente sentita, anche per lo sviluppo, nella società e nella cultura, di una particolare attenzione al linguaggio delle parole e del corpo, e ai segni, che nella comunicazione sociale e nell’arte trovano una via quotidiana di crescita e di maturazione.
 
 
Luoghi, tempi e forme della preghiera
 
 
Se é vero che il modo di avvicinarsi a Dio da parte del cristiano non si fonda sulla materialità dei gesti, dei luoghi e dei tempi o su una tecnica, perché la preghiera “è sempre un dono di Dio”(Cfr. Alcuni aspetti, cit., 23), tuttavia anche la preghiera del cristiano ha bisogno di tempi determinati di luoghi che la favoriscono e di forme concrete con le quali esprimersi.
 
Nella chiesa primitiva, in continuità con la preghiera giudaica, ben presto si organizza la preghiera, ma con grande libertà e soprattutto con spirito nuovo, quello portato dal Signore, il quale aveva raccomandato, da un lato, la perseveranza nella preghiera – “E’ necessario pregare sempre, senza stancarsi mai” (Lc 18, 1) - e, dall’altro, l’esigenza di pregare in spirito e verità, come disse alla samaritana: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. E’ giunto il momento... in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4, 23). Questa affermazione di Gesù che costituisce la condanna a morte del ritualismo (cioè del ritmo senza anima), relativizza, ma nello stessa tempo apre, “libera”- perché scioglie dagli “schemi” — e legittima le varie espressioni della preghiera e i luoghi più diversi.
 
Per cui, il luogo della preghiera non è solamente il tempio o il luogo sacro, ma è principalmente la chiesa, cioè l`assemblea dei fedeli, vero corpo e vero tempio, nato e costruito dallo Spirito, nel quale si esprime la pienezza del culto spirituale a Dio, e lo è il credente, esso pure tempio e altare. Luogo della preghiera, dunque, è qualsiasi luogo nel quale il singolo cerca, nel silenzio, l’incontro con il Padre, o dove due o tre (o più) sono riuniti nel nome di Cristo”, e costituiscono l’assemblea del popolo Santo.
Così pure la preghiera non ha tempi esclusivi: ogni tempo è tempo di preghiera. Infatti: “In ogni tempo i fedeli debbono offrire a Dio il sacrificio di lode” (Eb. 13, 15), “rendendo continuamente grazie a Dio per ogni cosa, (Ef. 5, 20).Tuttavia, la preghiera ha tempi privilegiati, ha tempi forti, che la tradizione cristiana e la liturgia rispettivamente suggeriscono e programmano nel corso dell'anno solare e liturgico, a scadenze diverse. Basti ricordare l'avvento, la quaresima il tempo pasquale, cui va aggiunta la domenica, "giorno del Signore" (Ap. 1,10), tappa settimanale, che va riscattata dalla abitudinarietà e talvolta della noia di un ritrovarsi insieme, senza gioia e senza festa.
Ma vi sono altri tempi dello Spirito, dei quali il più classico e conosciuto è quello degli esercizi spirituali, proposti da S. Ignazio di Loyola, e quello, più praticato, del ritiro spirituale, perché accessibile a un numero più alto di persone. Anche le forma della preghiera hanno assunto, via via, una grande varietà, che va dai modelli classici fino ai più recenti. E’ bene farvi un cenno.
 
1) Vi è la preghiera personale e individuale, dalla quale nessuno e dispensato, anche quando partecipa con assiduità quotidiana alle celebrazioni liturgiche o vi svolge un particolare ministero. E’ lo stesso Signore che ci ha esortato alla preghiera personale – “Quando preghi entra nella tua camera” (Mt 6, 6) - e ci ha preceduto  con l’esempio, messo in luce dagli evangelisti, soprattutto in coincidenza dei momenti più importanti della sua vita e del suo ministero messianico: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare” (Lc 11, 1); “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Le 6, 12-13). Bisogna riconoscere che il costume della preghiera personale, un tempo largamente praticato e visibile nelle nostre comunità, è entrato in crisi e ha subito un abbandono da parte di molti, anche in seguito al clima sociale dissipato e alla diversa organizzazione della vita: ritmi di lavoro, mobilità, invasione dei mass-media, industria del divertimento e dell’evasione, ecc. Chi ne ha fatto maggiormente le spese e stata l’orazione mentale, anche nella vita degli operatori pastorali, quali ad esempio i sacerdoti, che spesso si sentono “giustificati” per l’incalzare delle attività. E’ un atteggiamento questo che si riscontra anche in altri ambienti” cristiani. E a questo proposito, che D. Bonhoeffer racconta: “Recentemente un dirigente della chiesa confessante mi diceva; “Ora non abbiamo tempo per la meditazione; i candidati (i futuri pastori) devono imparare a predicare e a fare catechesi”. E commenta; “Questa è davvero una mancanza totale di conoscenza di ciò che deve essere oggi un giovane teologo, oppure una non conoscenza criminosa delle modalità con cui si struttura una predicazione o una catechesi” (D. Bonhoeffer, Una pastorale evangelica, Claudiana, Torino 1990, p.11).
L’abbandono della preghiera ha portato gravi danni alla vita spirituale dei singoli, alla qualità delle celebrazioni liturgiche non precedute e non seguite da un tempo di “meditazione” - spesso si va “dal letto all’altare”, e appena celebrato si esce di corsa dalla chiesa - e alla qualità della vita cristiana. La scomparsa della meditazione e della preghiera del mattino ha spento la gratuità nella vita quotidiana di molti cristiani, che affrontano la giornata trafelati e spiritualmente impreparati.
Va ricordata anche una particolare forma di preghiera personale costituita dalle giaculatorie che possono essere disseminate lungo il corso della giornata, nel bel mezzo delle attività e rispondere alle più svariate situazioni o ai diversi stati d’animo. E’ un uso antichissimo. S. Agostino lo ricorda con queste parole; “Sappiamo che gli eremiti d’Egitto fanno preghiere frequenti, ma tutte brevissime. Esse sono come rapidi messaggi che partono all’indirizzo di Dio”(Agostino, Lettera 130, 10,20).
2) Vi è poi la preghiera comune: quella fatta con altri fratelli nella fede. In questo caso la preghiera assume una connotazione e un valore particolare per la promessa del Signore che ha detto; “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20) e per l’esortazione dell’apostolo Paolo; “Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il cuore..” (Ef 5, 18-19).
E’ una preghiera sinfonica di lode e di intercessione, particolarmente gradita al Signore, efficace e benefica per chi vi partecipa, anche perché tende a creare uno Spirito di appartenenza e di comunione profonda. “Erano assidui e concordi
nella preghiera”, dice il testo degli Atti (1, 14). La preghiera comune si è molto sviluppata, grazie alla nascita di nuovi gruppi ecclesiali che spesso ne hanno fatto l’elemento più qualificante della propria identità, con caratteristiche e modalità particolari, riconoscibili come “peculiari” anche da chi non vi appartiene. Spesso in questi gruppi si fa l’esperienza anche della preghiera carismatica con la quale “i profeti” lodano Dio a voce alta, in modo ispirato, e talvolta “in lingue”  (cfr. 1 Cor. 14, 2).
3) Vi è, infine, la preghiera liturgica, che sta al vertice e la cui massima espressione e la sinassi eucaristica. L’interiorità - per l’azione dello Spirito - e l’espressività della preghiera liturgica, passano attraverso il linguaggio dei segni e dei gesti che la contraddistinguono. Essa è “unica” e deve essere considerata come la meta cui debbono orientarsi le altre forme di preghiera. Infatti, non solo la liturgia è preghiera, essa è la preghiera della chiesa in quanto tale, la preghiera del corpo mistico, capo e membra. Nel medesimo tempo é scuola di preghiera, in quanto, facendosi, educa il popolo cristiano a lodare Dio, come egli desidera essere lodato dai sui figli per portarli, insieme, alla salvezza. Ma per celebrate “come si deve”, occorre dedicarsi alla preparazione, al coinvolgimento della comunità, sviluppandone la ministerialità nelle sue diverse espressioni, alla acquisizione di uno “stile” che favorisca il necessario clima di raccoglimento (l’importanza dell’ascolto e del silenzio!) e di partecipazione il più possibile spontanea e gioiosa. Certe liturgie improvvisate, frettolose, più “chiacchierate” che celebrate, più noiose che gioiose, non edificano ma deludono la comunità.
Va sottolineato che le forme di preghiera indicate non sono tra loto alternative ma complementari e perciò necessarie le une alle altre. Mentre ieri la pietà personale, con le varie devozioni che l’alimentavamo, viveva quasi in modo indipendente dalla liturgia, fino a sovrapporvisi anche fisicamente (chi non ricorda il rosario recitato durante la messa, prima della riforma liturgica?) o a sostituirla; oggi si deve educare a non isolarle ma a viverle nella loro reciproca integrazione e compenetrazione.
Infatti, va tenuto presente che “è alla chiesa che la preghiera, nelle sue varie forme, viene consegnata: per questo la preghiera cristiana, anche quando avviene nella solitudine, in realtà è sempre all’interno di quella “comunione dei santi” nella quale e con la quale si prega, tanto in forma pubblica e liturgica quanto in forma privata. Il cristiano anche quando è solo e prega nel sagrato, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito Santo, insieme con tutti i santi, per il bene della chiesa”. (Alcuni aspetti, cit. 7).
Così la preghiera liturgica ha il suo anticipo, il suo prolungamento e il suo influsso ben oltre il rito. Perciò la liturgia delle ore ci fa chiedere: “Fa’ che risuoni sempre nel nostro spirito la divina liturgia che celebriamo con le nostre voci” (Orazione ai vespri del martedì della IV settimana).
 
Preghiera e impegno di carità
 
L’espressività della preghiera non si esaurisce nei gesti e nelle forme che essa assume, ma trova la sua piena realizzazione solo nella carità, cioè nell’amore di Dio e del prossimo che essa alimenta e manifesta già mentre si compie. E’ la stessa struttura trinitaria della preghiera cristiana, soprattutto nei sacramenti, che ci aiuta a contemplare il mistero di comunione di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, e a viverlo nel suo significato profetico, cioè di modello per la comunità cristiana e per l’umanità intera. “Espressività” della preghiera sta anche per incisività ed efficacia in ordine alla trasformazione della vita dell’orante, nel senso voluto da Dio. Perciò “la preghiera autentica desta negli oranti un’ardente carità che li spinge al servizio dei fratelli per la maggior gloria di Dio”(Alcuni aspetti, cit.13). Essa aiuta a capirsi come esseri in relazione, approfondendo e purificando i rapporti umani dalle incrostazioni dell’egoismo, che vuole asservire gli altri a sé. Perciò “ogni preghiera contemplativa cristiana rinvia continuamente all’amore del prossimo, perché essa vuol guardare in faccia uomini reali, uomini viventi e proprio così avvicina maggiormente a Dio” (Ibid, 28). E’ richiesta una carità impegnativa, difficile e a tutto campo, comprensiva anche dell’amore per i nemici. “Un anziano disse: “Ho lottato vent’anni per vedere tutti gli uomini come un solo uomo”. E padre Zenone rispose: “Chi desidera che Dio esaudisca presto la sua preghiera, prima di pregare per ogni altra cosa deve  pregare per i suoi nemici. E’ per questa azione buona che Dio lo ascolterà, qualsiasi cosa poi gli si chieda”(VD, I 206,7).
Dunque la preghiera autentica fiorisce e si realizza nella carità, sintesi della vita cristiana, come ci ricordano i nostri Vescovi: “Se la comunità é stata realmente raggiunta e convertita dalla parola del Vangelo, se il mistero della carità è celebrato con gioia e con armonia nella liturgia, l’annuncio e la celebrazione del “Vangelo della carità” non può non continuare nelle tante opere della carità testimoniata con la vita e con il servizio” (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 28).
Nella carità sta dunque il segno della conversione, la perfezione della preghiera e la verifica della vita. “L’uomo che ha raggiunto l'amore perfetto e la liberazione dalle passioni non fa più distinzione tra connazionali e stranieri, credenti e non credenti, schiavi e liberi, uomini e donne. Emerso dalla tirannia delle passioni e guardando solo alla condizione umana, osserva con imparzialità gli uomini e ha le stesse disposizioni verso tutti. In lui non c’è più né giudeo, ne greco, né schiavo, né libero, né uomo, me donna, ma tutti sono uno in Cristo Gesù (Gal 3, 28)” (Massimo il Confessore, Sulla carità, 2, 30; Filocalia 2, 68). Questa disponibilità verso gli altri, soprattutto se continuata, esige una profonda interiorità, che solo nella preghiera trova il suo “habitat” e il suo alimento.
La Bibbia ci insegna, inoltre, a non separare il culto a Dio dalla scelta preferenziale verso i poveri. I salmi ci presentano, con insistenza, la preghiera del povero, nel quale ciascuno di noi può ravvisare non solo se stesso, ma soprattutto “i poveri della terra” che gridano con insistenza a lui e che invocano il nostro aiuto. In questo senso si può cogliere tutto il significato di un’affermazione di D. Bonhoeffer: “Soltanto chi alza la voce in favore degli ebrei, ha diritto di cantare il gregoriano”(D. Bonhoeffer, Una pastorale evangelica Claudiana, Torino 1990, p.8).
In questo modo la preghiera viene liberata dai rischi dell’intimismo e dal formalismo esteriore e si apre alla storia degli uomini, interpretandola alla luce della parola di Dio e della celebrazione dei misteri, soprattutto dell’eucaristia “che svela il senso della storia perché lo contiene”(Eucarestia, comunione e comunità,57).
Per vivere e crescere in questo spirito ci é dato un tempo privilegiato il giorno del Signore. “E’ soprattutto la domenica il giorno in cui l’annuncio della carità celebrato nell’eucaristia può esprimersi con gesti e segni, visibili e concreti, che fanno di ogni assemblea e di ogni comunità il luogo della carità vissuta (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 28). Se la preghiera non isola dal mondo e della vicenda umana, la vita cambia per noi e per gli altri che ci incontrano, che spesso cercano Dio e lo vorrebbero incontrare nella loro esperienza quotidiana. E proprio qui bisogna farglielo trovare, attraverso il dono di sé, segno della presenza invisibile e operante di Dio. In questo senso s. Agostino poteva affermare; “Se vedi la carità, vedi la Trinità” (Agostino, De Trinitate, 8, 8, 12).
 
Si sente la necessità
di una maturazione dell’esperienza cristiana
di persona e di gruppi,
mediante una pastorale della spiritualità,
ricca di iniziative
(Sinodo episcopale sulla vita religiosa, Lineamenta, n. 43)
 
Vi invitiamo a mettere sempre al primo posto,
nell’opera di evangelizzazione
e di testimonianza della carità,
l’incontro con Dio
e il dono dell’esperienza di Dio.
Sia questa la sorgente
della nostra forte speranza e fiducia
nel cammino verso il Terzo millennio
dell’era cristiana.
(CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 53)

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