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COMUNITA’ RELIGIOSE E FAMIGLIE INSIEME PER I POVERI
 
di Luciano Baronio
 
 
Il Seminario di studio su "Famiglie e comunità di vita consacrata insieme nel servizio ai poveri" che ha avuto luogo a Roma(1) ha reso possibile ed ha favorito un incontro - il primo del genere a carattere nazionale - tra coppie di sposi cristiani, religiosi e religiose, membri di istituti secolari i quali hanno "raccontato" le loro esperienze di servizio ai poveri: quelle vissute insieme da famiglie e da comunità di vita consacrata. Su di esse si è sviluppato un confronto assai interessante ed è iniziata cosi una riflessione che ne ha messo in luce gli aspetti più caratteristici e più qualificanti. Presentiamo alcune linee emerse dall’incontro che pensiamo utili non solo alle congregazioni religiose già coinvolte in queste esperienze, ma anche a tutte le altre comunità che, sensibile all’impegno al servizio ai poveri, vanno cercando, nella fedeltà al loro carisma originario, forme innovative nella testimonianza della carità alla quale tutti i cristiani, pur nella diversità delle vocazioni, dei doni, dei ministeri e delle situazioni di vita, sono chiamati. "Lo Spirito che unifica la chiesa nella comunione e nel servizio"(LG 4) esige che la testimonianza di amore sia comunitaria. Infatti, "la carità si esalta in modo specifico nella reciproca accettazione di tutte le persone e della pluralità delle esperienze"…;così ogni fermento di bene viene opportunamente valorizzato ad utilità della comunità intera e diventa scuola permanente di comunione" (CC 62). Partendo dalle esperienze presentate, facciamo alcune riflessioni di carattere teologico-pastorale, onde metterne in evidenza gli elementi comuni, i significati e i valori, le connessioni e le analogie esistenti tra le famiglie e le comunità religiose, il rapporto delle esperienze con la chiesa locale e con la società civile; accenneremo infine ad alcuni temi e problemi da approfondire, onde facilitare il comune cammino iniziato.
 
 
I. Riflessioni teologico-pastorali
 
 
Per amore di chiarezza e di brevità procediamo per punti.
 
 
Gli elementi comuni
 
 
Le esperienze, pur nella varietà e nella originalità di ciascuna, hanno presentato i seguenti punti comuni:
 
a) una profonda ispirazione evangelica: tutto è nato dalla Parola di Dio letta e meditata insieme e dalla conversione interiore, personale e di gruppo, che ha cambiato il rapporto con Dio e con il prossimo suscitando una comune volontà di impegno cristiano da tradurre in atteggiamenti e iniziative impensabili precedentemente. E’ nato, ha detto uno dei partecipanti all’incontro, da un atto di umiltà, dal fatto di sentirsi poveri e inadempienti di fronte alla Parola di Dio e tuttavia desiderosi di riguadagnare il tempo perduto;
 
b) la compresenza di due realtà ecclesiali diverse: la famiglia e la comunità religiosa;
 
c) il servizio ai poveri, come obiettivo comune ed elemento qualificante;
  
d) la caratteristica della novità, nel vasto campo della testimonianza della carità, sulla base dei significati e dei valori di cui di seguito parliamo.
 
 
Significati e valori delle esperienze
 
 
E’ emerso anzitutto un nuovo modo di intendere e di attuare la vita religiosa - della quale tuttavia non altera gli aspetti fondamentali - soprattutto nel suo rapporto con la comunità cristiana e con la società civile; nonché una nuova modalità di rapporti, in maggior consonanza con l'attuale sensibilità sociale ed ecclesiale ed in armonia con lo sviluppo della riflessione teologica post-conciliare. Innegabili sono inoltre i riflessi delle esperienze comunicate sul modo di concepire la famiglia e di impostarne la vita, nonché sui rapporti tra famiglie e comunità religiose; la relazione diretta con i poveri sul territorio, infine, ne unifica la testimonianza e ne accentua il ruolo sociale (2). Ci si incammina così, forse inconsapevolmente, verso la meta indicata dal convegno ecclesiale di Loreto nel 1985, che aveva richiamato la chiesa italiana a riflettere su Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini; in esso, i lavori della commissione XI avevano infatti posto l’accento sulla fecondità della differenza tra laici, chierici e religiosi. Tutto ciò porta con sé, se sviluppato, un nuovo modello di rapporti all’interno della comunità cristiana. Si tratta effettivamente di superare mentalità e barriere, dovute a incrostazioni, talora secolari, per le quali dalla specificità e dalla distinzione degli “stati di vita”, si è passati alla separazione e, di fatto, quasi alla incomunicabilità.
Bisogna riconoscere che l'ecclesiologia precedente al Concilio Vaticano II aveva accentuato, spesso in modo unilaterale - studiandoli “separatamente”, quasi fossero realtà a sé stanti – alcuni elementi ed alcuni ministeri, lasciandone in ombra altri, a scapito di una equilibrata visione teologica globale.
Tipico è il caso della Teologia del sacerdozio, la quale metteva l’accento quasi esclusivamente sul sacerdozio dei presbiteri, soffermandosi poco o nulla sul sacerdozio comune dei fedeli. Le conseguenze di tale impostazione si riflettevano in modo visibile e verificabile in una prassi liturgica e pastorale, nella quale il ruolo del presbitero non solo era prevalente, ma assorbiva di fatto ruoli non propri, riducendo i laici - cioè la massima parte dei componenti la comunità - a semplici destinatari dell’azione pastorale, e inducendo in essi un atteggiamento di passività, che, spesso, lamentiamo ancora oggi.
Il Concilio Vaticano II, al contrario, trattando della chiesa la presenta anzitutto nel suo insieme, come comunità e come popolo profetico, sacerdotale e regale: dunque una “unità” articolata, che prevede al suo interno realtà, ministeri e carismi diversi, dati dallo Spirito per 1'utilità comune, offrendo così una ecclesiologia di comunione che integra nell'unità le diversità, rispettandole. Pertanto ciò che é comune viene prima ed e più importante. In questo modo viene messa nel dovuto risalto la fondamentale unità della vocazione cristiana, l’appartenenza allo stesso popolo di Dio e la universale chiamata alla santità (cfr capitolo II e capitolo V della Lumen gentium) derivanti dal battesimo, per cui “ciò che é comune a tutti nella chiesa viene prima ed e più importante di ciò che ci distingue gli uni dagli altri” (Card. Camillo Ruini in La chiesa italiana di fronte alla Populorum progressio, oggi). Evidentemente non si tratta di confondersi gli uni con gli altri, né tanto meno di scambiarsi i ruoli. Ciascuno mantiene la sua specificità, ma é chiamato ad intenderla e a viverla nella reciprocità e nella complementarietà, sentendosi parte del tutto e sentendo il bisogno degli altri.
 
 
Connessioni e analogie tra vita religiosa e famiglie
 
 
Vi sono tra famiglie e comunità di consacrati dei punti in comune e delle differenze, di cui indichiamo brevemente i seguenti:
a) la famiglia ha la sua sorgente nel sacramento del matrimonio; lo stato di vita religiosa è originato invece dalla professione dei voti, vissuti concretamente in “quella” comunità con origini ecaratteristiche particolari;
b) ambedue fioriscono sulla pianta del battesimo, crescono e maturano con il pane della parola e quello dell’eucaristia;
c) ambedue sono chiamate contemporaneamente “comunitas” e “famiglia”: la famiglia infatti é definita “chiesa domestica” e la comunità religiosa é detta anche “famiglia”, nella quale i componenti condividono la vita e i beni e si chiamano con il nome di “fratelli e sorelle”;
d) ambedue hanno il carattere della “ministerialità”. Per questo aspetto e utile rileggere il n. 70 ed il n. 74 del documento della CEI: “Evangelizzazione e ministeri” (1977) dove é trattato rispettivamente il tema “ministeri e religiosi” e “ministeri e famiglia”, che per ragioni di brevità non riporto. Utile pure e il riferimento al documento “Evangelizzazione e sacramento del matrimonio” del 1975 dove, per la prima volta, si parla del “ministero dei coniugi” (cfr Enchiridion CEI, EDB, vol. 2° pag. 766-772. – “L’impegno per l’evangelizzazione del sacramento del matrimonio”; II  deliberazioni, 1);
e) la spiritualità - si distinguono invece per la spiritualità: l'una infatti é laicale, l’altra monastica o di vita religiosa, ispirata alla pratica dei consigli evangelici; cosicché la fedeltà al Signore - necessaria per gli uni e per gli altri - é vissuta per vie proprie. Questo è uno dei temi più volte toccati nel dibattito, presentato come punto da approfondire e come “problema”. La vicinanza infatti tra le due realtà - famiglia e comunità religiosa - così come si realizza nelle “esperienze”, potrebbe alterare la spiritualità propria di ciascuna, sbilanciandola a favore dell’altra. E’ già avvenuto, per il passato, quando la spiritualità monastica aveva di fatto condizionato e ritardato il nascere ed il formarsi di una autentica spiritualità laicale.
Precisato questo, va detto subito che le due spiritualità sono da concepire come interdipendenti: hanno bisogno l'una dell’altra per vivere in pienezza la comune chiamata alla santità, perché la fedeltà degli uni è di stimolo e sostegno alla fedeltà degli altri. Infatti, se i coniugi cristiani sono fedeli, superando difficoltà e crisi, anche i religiosi più facilmente riusciranno ad esserlo e viceversa. Da questo punto di vista, forse, non è casuale la contemporaneità della crisi che ha investito la famiglia, la comunità religiosa, ed i sacerdoti: pur essendo diverse e molteplici le cause, in fondo si tratta di uno stesso problema.
La parentela tra le due spiritualità e sottolineata anche dal comune linguaggio sponsale usato, sia nella teologia spirituale che nella liturgia. Si pensi, per esempio, all’”ordo della consacrazione delle vergini”, al rito della professione perpetua, alla liturgia del matrimonio (rito e lezionario) e alla descrizione delle tappe della vita mistica, come vita di unione con Dio, che riguarda sia i religiosi che i laici.
 

Il rapporto delle esperienze con la chiesa locale
 
E’ evidente che tutto ciò tende a mettere in moto un nuovo dinamismo all’interno della comunità cristiana, la quale, se è attenta, almeno nei suoi responsabili, non può non sentirsi interpellata. Le famiglie e le comunità religiose infatti sono “chiesa”, sono realtà vive della chiesa locale: diocesi e parrocchie.
 
 
a) Quali rapporti?    
 
• Da “protagoniste” della pastorale. La comunità religiosa e la famiglia, quali componenti della chiesa locale, hanno dei ruoli significativi da svolgere che vanno resi operanti. Ambedue sono soggetti di pastorale: hanno un ministero da compiere che le rende protagoniste nell'azione pastorale della chiesa. Non possono essere ridotte, soprattutto la famiglia, a semplici destinatarie di programmi pensati per loro (cfr AA 30).
 
Rapporti di reciprocità. Ci interessa in modo particolare il rapporto di reciprocità tra famiglia e comunità cristiana. A livello teologico e pastorale, questo rapporto é già stato, più volte, messo in luce anche dai documenti del magistero. Sia il Concilio, sia i documenti della Cei, che quelli sinodali le trattano, talora, con ampiezza. Basta ricordare, per esempio l’esortazione apostolica “Familiaris Consortio” (1981) di Giovanni Paolo II e tra i documenti della Cei che parlano della famiglia, quello del 1982 su “Comunione e Comunità nella Chiesa domestica” (particolarmente dal n. 3 al n. 7). In breve, si puòaffermare che i rapporti che legano la famiglia alla comunità cristiana sono così profondi che non è possibile ignorarli.
 
• Rapporti di complementarietà. La chiesa “casa e famiglia di Dio” (2 Tim 3, 15; Ef 2, 19-22) e la famiglia “chiesa domestica” (LG 11) nella loro realtà si illuminano a vicenda.
- In ambedue ministeri e carismi sono dati per il bene di tutti, in vista dell'edificazione della comunità.
- Ambedue sono luoghi di catechesi e di preghiera.
- In ambedue vi sono dei “fratelli”, vi é una mensa comune ed un pane da spezzare.
- Sono ambedue comunità di amore.
 
Fattori di sviluppo del senso comunitario. La famiglia - e le comunità religiose - aiutano la crescita del senso comunitario nella chiesa locale, in particolare nella parrocchia, definita “famiglia di famiglie” (Comunione e comunità nella chiesa domestica 24). A livello di base soprattutto, le famiglie sono in grado di tessere una rete di fraternità e di solidarietà che non può non influire in modo determinante sulla vita della comunità cristiana. La chiesa allora assume una dimensione più familiare e più vicina all’uomo concreto e nel contempo la famiglia riceve un volto più ecclesiale.
 
b) Per quale tipo di pastorale?
 
Per una pastorale comunitaria. La compenetrazione e l’influsso reciproco di queste realtà ecclesiali dovrebbero aiutare uno sviluppo più organico della pastorale comunitaria, nella quale non dovrebbero esserci delle zone franche, delle isole, o delle linee parallele che non si incontrano mai. A questi effetti e fondamentale le “esperienze” presentate nel Seminario, non rimangono isolate o sconosciute, ma entrino invece soprattutto per ciò che hanno di più significativo, nelle vie ordinarie della pastorale. Infatti sia la famiglia che la comunità religiosa hanno e debbono avere, per loro natura, come più volte e stato sottolineato anche nei documenti del magistero, un rapporto diretto - in senso attivo e passivo - con la catechesi, con la liturgia e con la testimonianza della carità. In particolare la famiglia va pensata come luogo di esperienze originali di preghiera, di lettura della parola di Dio, di itinerario fatto insieme per l’iniziazione dei fanciulli alla fede, all’apostolato e alla testimonianza della carità (cfr AA 30 e LG 35). Non si continua infatti a dire e a scrivere che la famiglia e una comunità di fede, che ha il compito di trasmetterla e di nutrirla? Che è comunità di preghiera, con il compito di iniziare ad essa i suoi membri fin dall'infanzia? Che è comunità d'amore? Cosi dicasi, con modalità e per aspetti diversi, della comunità religiosa.
 
Per una testimonianza comunitaria della carità. Evidentemente assume particolare importanza, nei riguardi della comunità cristiana, la testimonianza della carità che la famiglia e la comunità religiosa riescono ad esprimere, superando, per quanto le riguarda, il costume della delega agli altri o della supplenza per gli altri, che costituiscono un assurdo dal punto di vista cristiano, dal punto di vista cioè dell'etica della responsabilità personale.
Anche in questo campo, l’esempio di famiglie e comunità religiose insieme favorirà un allargarsi del costume della solidarietà, mediante la diffusione di una cultura dell'accoglienza, che si promuove:
- diventando accoglienti;
- dando vita ad iniziative, alle quali tutti possono partecipare, ad incontri informativi per l’opinione pubblica e ad incontri formativi per gli operatori;
- facendo delle proposte concrete: quali l'affido di minori, il sostegno alle famiglie in difficoltà, lo sviluppo di un'azione preventiva per i soggetti a rischio (ad esempio: gli adolescenti), l'appoggio a chi fa accoglienza, la destinazione di case o di beni (della comunità) abbandonati o non utilizzati pienamente, a favore dei poveri, ecc.
 
Le esperienze e la società civile
 
I rapporti con la società civile non solo sono auspicabili, ma per i cristiani sono “inevitabili”. In questa prospettiva che ci coinvolge sottolineiamo alcuni punti.
 
La rilevanza sociale del servizio ai poveri. Il rapporto chiesa mondo e la dimensione della missionarietà toccano in modo particolare il campo della testimonianza della carità, la quale va incontro all'uomo così come è e dove è. Le testimonianze della carità hanno infatti una rilevanza sociale e l'hanno, a maggior ragione con un peso specifico più grande, quando sono espresse in forme associate (cfr FC 72), come avviene per molte delle “esperienze” presentate. La famiglia e la comunità religiosa riscoprendo i poveri e servendoli hanno, nello stesso tempo, ritrovato un rapporto con il territorio e con la gente che vi abita (cfr per i religiosi, LG 46 dove si dice: “Né pensi alcuno che i religiosi con la loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili alla città terrestre”).
 
Il servire i poveri, insieme. Il fenomeno della povertà e delle emarginazioni è talmente vasto ed in continua espansione che esige degli sforzi congiunti e delle risposte possibilmente comunitarie. Si pensi alla situazione dei minori abbandonati, agli anziani, ai disoccupati, agli alcoolisti, ai tossicodipendenti, agli ammalati di aids, ai malati terminali, al numero crescente di famiglie ridotte a brandelli.
 
Non fare da soli ma con gli altri: promuovere cioè il coinvolgimento più largo possibile: della comunità cristiana, delle istituzioni civili, dell'opinione pubblica indicando l'impegno per gli altri come superamento dell’egoismo e come via di uscita dall'insoddisfazione e sensibilizzando in modo particolare chi svolge un ruolo educativo, quali i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti, le comunità religiose, non solo perché insegnino, ma anche perché si impegnino a fare, in prima persona.
 
La territorialità degli interventi. In questo modo si crea un rapporto privilegiato con il territorio che si esprime in quella che è chiamata territorializzazione degli interventi, secondo il principio che una comunità non può abbandonare a se stessi i propri membri bisognosi ma di essi si deve occupare e preoccupare, aiutando chi vive accanto (vicinato) senza per questo dimenticare chi viene da lontano o chi vive lontano.
 
• l’attenzione al civile e la collaborazione con le istituzioni. Onde offrire tutta la collaborazione possibile al bene comune è necessario cercaree mantenere rapporti con le istituzioni. Ciò comporta un atteggiamento di disponibilità che si traduce nella ricerca di modi concreti per esprimerla.
Questo avviene, tra l’altro, quando:
- si da il proprio apporto al buon funzionamento dei servizi sociali (Asl, scuole, carceri, ecc.), con lo specifico intento di umanizzarli;
- si denunciano le inadempienze soprattutto a carico di coloro che non contano e che non hanno la possibilità di far valere i propri diritti;
- si fa pressione perché vengano applicate le leggi, cambiate quelle ingiuste o vengano coperti i vuoti legislativi;
- ci si impegna perché l'ottica familiare venga accolta nella legislazione e nella cultura. La legislazione italiana infatti riconosce la soggettività individuale non quella familiare, per cui la famiglia soffre di fragilità istituzionale e mancanza di politiche a favore della famiglia in quanto tale;
- si propone alle istituzioni, ai vari livelli, di considerare la famiglia come una risorsa su cui contare per la risoluzione dei problemi sociali che lo Stato assistenziale (Welfare State) non è stato in grado di risolvere. Si pensi alla funzione sociale che la famiglia può svolgere nei riguardi degli anziani, dei malati o dei minori. Una politica “familiare” in questo senso sarebbe anche per lo stato e la collettività umanamente apprezzabile ed economicamente vantaggiosa;
- si aiutano le famiglie ad essere coscienti dei propri diritti e del ruolo sociale che loro spetta:
- si lavora per il nascere di famiglie nuove aperte alla vita e aperte a coloro che la cultura borghese ci ha abituati a chiamare estranei, ma che in realtà sono nostri simili e nostri fratelli.
 
I riflessi sulla spiritualità. Questa dimensione sociale, meglio definita oggi come missionaria, tocca anche la spiritualità, cioè il modo di vedere la parola di Dio, la propria fede e il rapporto con Cristo, incontrato nella Parola, nei sacramenti ma anche nell'uomo, soprattutto se è povero. Così la spiritualità si arricchisce di accentuazioni nuove, tutt’altro che secondarie, che investono anche l’impegno socio-politico che Paolo VI definì “ una maniera esigente e di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (Otogesima Adveniens, 1971, 46 C).
 
 
II. Temi e problemi da approfondire
 
 
Più volte nell'esposizione delle “esperienze” e nel dibattito che ne è seguito é stata richiamata l’attenzione di tutti su quelli che sono stati chiamati “problemi” da approfondire in modo organico. Non c’é stato il tempo di affrontarli tutti e non sarebbe stato possibile farlo nel modo conveniente. Di alcuni ne abbiamo già fatto cenno in questa stessa esposizione. La riflessione deve comunque continuare: per questo li elenchiamo brevemente perché siano a tutti ben presenti.
 
1. Temi di carattere teologico-pastorale:
- la laicità: natura e modalità di espressione;
- la spiritualità laicale: note caratteristiche e suoi rapporti con le altre spiritualità cristiane in particolare con quella della vita consacrata;
- il battesimo e la vocazione universale alla santità;
- rapporto tra i vari stati di vita e le diverse vocazioni cristiane: fondamentale unità, pluralità e integrazione;
- la ministerialità delle famiglie e dei religiosi: che cosa si intende e come la si vive;
- la missionarietà, come apertura alla dimensione sociale, come vicinanza all'uomo e condivisione con il povero;
- la testimonianza della carità: elemento comune ed unificante; diverse modalità di attuazione;
- la famiglia e la comunità religiosa, soggetti di pastorale e loro ruolo sociale sul territorio.
 
2. Temi e problemi di carattere giuridico. Sono emersi degli elementi che hanno o possono avere rilevanza giuridica.
Ad esempio:
- come regolare i rapporti tra le famiglie aperte all'accoglienza e le comunità religiose di sostegno o integrate”;
- come configurare le associazioni di volontariato nelle quali entrano membri delle une e delle altre; a quale titolo e con quale collocazione vi entrano; con quali modalità specifiche configurare l’appartenenza “stabile” di laici, aggregate ad una comunità religiosa;
- come regolare i rapporti economici interni, l’uso e la destinazione dei beni comuni;
- come regolare i rapporti di lavoro;
- il tipo di “soggettività” nei confronti della società civile; quale “riconoscimento” è utile.
 
 
3. Il metodo
E’ importante elaborare insieme un metodo. E così importante che, in certo modo, esso fa già parte del contenuto. Per quanto ci riguarda occorre promuovere una riflessione di approfondimento che coinvolga esperti (teologi, giuristi, antropologi, ecc.) e pastori, insieme ai protagonisti delle esperienze presentate nel Seminario. E’ necessario conoscere e riflettere insieme.
Evidentemente non si tratta di accreditare come esperto chi non lo è, ma di aiutare a fare teologia e pastorale in modo nuovo, usando il metodo induttivo, percorrendo cioè la via storica che mette a confronto la parola di Dio e il vissuto della comunità, ambedue opera dello Spirito, onde coglierne le armonie e compiere insieme il discernimento.
 
4. Il linguaggio
Anche il linguaggio ha la sua importanza, perché vi sia reale comunicazione tra chi vive queste “esperienze”, la comunità cristiana e l'opinione pubblica in generale e affinché si riesca da un lato ad evitare malintesi e sospetti e dall'altra a trasmettere i valori vissuti. A mano a mano che procederà l’approfondimento culturale e il cammino di maturazione delle esperienze, anche il linguaggio potrà acquistare precisione ed espressività.
 
 

Conclusione
 
Tenendo conto che "la diaconia della carità e la miglior testimonianza da offrire al mondo e diventa elemento basilare per l’efficacia dell’evangelizzazione (CC 68), c'è da chiedere a Dio che non venga mai meno alle nostre comunità quella “genialità inventiva, alimentata dalla carità, che sa trovare risposte nuove a bisogni nuovi e che sa incarnare l’acutezza della profezia, la sapienza del discernimento, e la tenacia del servizio” (3)
 
NOTE
 
(1) Il Seminario è stato promosso dalla Caritas Italiana nella sua qualità di organismo pastorale della CEI che ha lo scopo di promuovere, anche in collaborazione - in seguito anche alla richiesta di alcuni dei protagonisti delle esperienze di comunità religiose "integrate" da famiglie per il servizio ai poveri, con altri organismi e realtà ecclesiali, la testimonianza della carità della comunità ecclesiale in forme consone ai tempi e ai bisogni (cfr Statuto della Caritas Italiana, art. 1). Gli Atti del Seminario sono stati pubblicati in Italia Caritas documentazione, sett.- ott. 1988.
(2) Assai significativi in proposito sono i nn. 44 e 74 della Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II.
(3) + Bruno Foresti, vescovo di Brescia, alle Caritas parrocchiali.

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